giovedì 18 aprile 2024

L’ antisemitismo negli Atenei: non c’è peggior sordo…

 

Ci si interroga sull’antisemitismo negli atenei. E soprattutto si vuole risalire alle colpe.

Intanto, il punto è che molti di coloro che a destra (perché ci sono) e sinistra rifiutano il diritto di parola a Israele, non si sentono affatto colpevoli. Anzi ritengono fermamente di essere dalla parte della ragione come le SS che sguinzagliavano, in automatico, i cani nel ghetto di Varsavia per fiutare, catturare e fucilare ebrei. Profilassi sociale. Si guardi la propaganda nazista dell’epoca, in particolare notiziari e documentari.

Insomma, a proposito dei contestatori, molto spesso violenti, non si tratta di una questione di contenuti (ciò che dicono e fanno), ma di forme del pensiero ( cognitivamente, aperte o chiuse).

Si dirà che la prendiamo troppo da lontano, e che comunque si deve fare qualcosa per favorire la libertà d’opinione negli atenei, senza opprimere nessuno, né i contestatori, né gli israeliani.

Perfetto. Se è questo che si vuole, allora ci si deve proprio interrogare sulla forma mentis del contestatore.

Abbiamo appena fatto un parallelo tra le SS e i contestatori di oggi. Qual è il minimo comune denominatore? La mente chiusa dall’ideologia che porta a imporre le proprie idee anche con la forza.

Che cosa significa mente chiusa? Per metterla sul lato psicologico è l’incapacità di guardarsi allo specchio. Di guardarsi dal di fuori, di relativizzare le proprie idee.

I nazisti e gli antisemiti, pardon ora si fanno chiamare antisionisti, ieri come oggi, puntano alla distruzione del popolo ebraico, nel quale vedono il nemico da distruggere. E tutto questo è creduto e vissuto in chiave  assiomatica.  Gente del genere neppure sa dove sia di casa il mea culpa.

Un inciso: l’antisionismo non è che la naturale prosecuzione dell’antisemitismo: se gli antisemiti nazisti negavano il diritto di esistenza dell’ebreo in quanto tale, gli antisionisti negano il diritto di esistenza dello stato-nazione ebraico, o comunque a maggioranza ebraica. La sostanza è la stessa: l’eliminazione di ogni traccia di ebraismo in forma di movimento (il mondo ebraico della diaspora), come di istituzione (lo stato di Israele). Dalla profilassi sociale (nazisti) alla profilassi geopolitica (antisionisti). Sempre di “profilassi” si tratta.

E non sia dia ascolto allo storiella dei due popoli, due stati. Per Israele non cambierebbe nulla. Anzi, con il nemico statalizzato alle porte, sarebbe ancora peggio. Il palestinese andrebbe invece modernizzato, dove necessario secolarizzato, e integrato. Ma questa è un’altra storia.

Facciamo solo un esempio di questa chiusura mentale. Si rimprovera a Israele di opprimere i palestinesi. Benissimo. Andiamo a vedere i fatti.

La popolazione israeliana, inclusa una forte minoranza araba (circa 1 milione e mezzo) è di circa 10 milioni. Per contro la popolazione dei paesi aderenti alla Lega araba ammonta a circa mezzo miliardo: 500 milioni. I palestinesi (come membri dello stato della Palestina (Cisgiordania e striscia di Gaza) sono circa 5 milioni (per inciso nel 1948 i palestinesi erano poco più di 600 mila: dov’è il genocidio del popolo palestinese?).

Gli ebrei sparsi nel mondo, quindi parliamo dei seguaci dell’ ebraismo (la religione), sono circa 15 milioni, magari alcuni con la doppia cittadinanza: però si tratta di cifre minime (i palestinesi invece sono circa 6 milioni, più i 5 già citati sopra). Per contro gli islamici nel mondo sono quasi 2 miliardi (*).

Israele  è  un' isoletta circondata da un mare di nemici.

Ora guardarsi allo specchio, da persone normali senza alcun pregiudizio, significa, capire, che non è Israele che opprime gli arabi, ma gli arabi che hanno le carte in regola, a cominciare dagli sviluppi demografici, per opprimere Israele.

Lo stato di Israele si difende come può. Se abbassasse le armi verrebbe immediatamente cancellato dalla faccia della terra. Piaccia o meno, sono rapporti di potenza. Qui l’importanza dell’appoggio, anche militare, dell’Occidente, per controbilanciare arabi e islamici, quindi anche non arabi come gli iraniani.

Rifiutare questa realtà – in pratica i fatti – significa possedere una mente chiusa, diremmo oppressa dall’ideologia. Ed è questo l’atteggiamento dei contestatori degli atenei italiani che rifiutano il diritto di parola a Israele nel nome dell’ideologia antisemita-antisionista.

Si può fare qualcosa? Certo. Difendere il diritto di parola dello Stato d’Israele e dei suoi rappresentanti a ogni livello. E soprattutto ristabilire la verità: che il cattivo non è Israele.

Purtroppo, come recita il proverbio, non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire…

Carlo Gambescia

 (*) Sono dati, a prescindere dai siti specializzati (Ispi, Limes ad esempio, frequentati dagli specialisti), a portata di clic su Internet per voce. Quindi tutti potrebbero facilmente documentarsi. Eppure…

mercoledì 17 aprile 2024

Rapporto sulla competitività. Mario Draghi e l’isola che non c’è

 


Mario Draghi non è un personaggio da prendere sottogamba. Come presidente della Bce e del Consiglio ha mostrato buone qualità politiche e di indipendenza decisionale. Draghi non è la marionetta di nessuno. Al contrario rappresenta la migliore espressione di una visione liberalsocialista, anche per sua stessa ammissione, della politica e dell’economia.

Il problema è che la “visione” è più socialista che liberale. Socialista – attenzione – non nel senso epico del termine ma nel senso specifico del controllo pubblico dell’economia.

Sul punto, come in ogni forma di interventismo statale, gioca un ruolo importante l’aspetto tecnocratico. Cioè di una visione che considera la democrazia rappresentativa – il sale che dà sapore al liberalismo, quello vero, storico – un fenomeno secondario, quasi privo di importanza.

Diciamo che Draghi alla discussione privilegia la decisione, ancora meglio, se quest’ultima è presa da dirigenti altamente specializzati nei rami dell’economia e della scienza.

L’idea del controllo pubblico dell’economia, coordinata in chiave europea,  verticistica e tecnocratica,  è al centro del suo annunciato Rapporto sulla competitività europea, che ieri ha anticipato nelle sue linee generali (*).

In pratica il Rapporto si muove intorno a tre idee: a) riduzione della dipendenza tecnologica ed energetica dell’Ue dal resto del mondo; b) formazione di grandi imprese a livello europeo in tutti i settori, ancora meglio se controllate dai poteri pubblici, per competere ad armi pari con il resto del mondo; c) introduzione di una specie di nuovo patto dei produttori tra sindacati e imprese, basato sulla politica dei redditi, cioè sulla concertazione tra imprenditori e sindacati, che vincola l’accrescimento dei salari alla crescita della produzione e degli utili di impresa.

In sintesi: Draghi all’offerta esterna oppone la domanda interna. Non crede nel libero mercato. Ma molto probabilmente, da buon tecnocrate interventista, non vi ha mai creduto.

Sembra di rileggere un vecchio scritto di Keynes, degli anni Trenta, dove si celebrava l’ autosufficienza o autarchia economica britannica, allora di tipo  imperiale (**).

Ovviamente Draghi, che traspone il concetto a livello europeo, non usa questo termine, non abbastanza sofisticato, ma parla, più volte, della necessità di una difesa europea della “catena di approvvigionamento”. Come qui:

«In un mondo in cui i nostri rivali controllano molte delle risorse di cui abbiamo bisogno, tale agenda deve essere combinata con un piano per proteggere la nostra catena di approvvigionamento, dai minerali critici alle batterie fino alle infrastrutture di ricarica. La nostra risposta è stata limitata perché la nostra organizzazione, il processo decisionale e i finanziamenti sono progettati per “il mondo di ieri”: pre-Covid, pre-Ucraina, pre-conflagrazione in Medio Oriente, prima del ritorno della rivalità tra grandi potenze».

Draghi, da sbrigativo realista a breve termine, dà per scontata, come un tempo Keynes, la fine definitiva del laissez-faire. E punta su quello che è il fratello gemello dell’interventismo statale: il protezionismo economico e sociale.

Si dirà che Draghi non ha tutti i torti perché il barometro della politica internazionale da alcuni anni indica maltempo. Però un vero politico – ecco la differenza con il tecnocrate – non può dare come definitivi processi (di vario tipo), ancora in corso, “contingenti”, e puntare su misure economiche “permanenti”, come se non ci fosse domani (per dirla alla buona).

Di qui, al contrario, la necessità “politica”, non tecnocratica, di valutare il rischio futuro di ricorrere oggi a massicce dosi di protezionismo (le politiche contrarie all’offerta, prima ricordate); di concentrazione delle imprese (quindi scelte monopolistiche, contrarie al libero mercato); di welfarismo contrattato tra imprese e sindacati (il costoso rilancio della domanda interna, cui accennavamo).

Il problema è quello dell’esistenza di un’ isola che non c’è. Per capirsi: parliamo di misure che al momento possono apparire salvifiche, mentre in realtà possono pregiudicare l’economia europea e mondiale per almeno mezzo secolo. E qui si pensi ai guasti del protezionismo degli anni Trenta del Novecento, i cui effetti negativi si prolungarono fino agli anni Sessanta. Ma anche quello dell’ultimo trentennio dell’Ottocento. Che poi dietro il protezionismo ci sia lo stato o un insieme di stati è la stessa cosa. 

Riassumendo: non esiste alcuna isola felice, separata dal mondo. Non si può separare la competitività dal libero mercato, chiudendosi in casa e gettando la chiave. Come canta Morgan? "Ho deciso di perdermi nel mondo". Ecco questo è lo spirito giusto. Non la competizione, se e quando tale,  foraggiata dallo stato e pagata cara, per ricaduta da prezzi  monopolistici, dai consumatori.

Non si tratta di un puro atto fede nel libero mercato. Il vero politico deve ragionare se non per millenni almeno per secoli. Si chiama realismo a lungo termine. E gli ultimi secoli ci dicono che il libero mercato, pur tra alti e bassi (guerre e disgrazie varie incluse), è molla di progresso e libertà. Per contro un tecnocrate, cioè un realista a breve termine, non va oltre lo studio accurato dei bilanci e la compravendita imprenditori-sindacati. Come dire? La storia neppure come accessorio, aggiunta, surplus mentale.

Qui i limiti di Draghi e delle sue idee sulla competitività europea. Idee che possono addirittura raccogliere consenso a destra, dal momento che l’interventismo pubblico, a partire dall’idea protezionista, oggi come oggi, accomuna destra e sinistra. 

Per capirsi, e restare in Italia, la tentazione interventista mette insieme, sfumature ideologiche a parte, Giorgia Meloni, Elly Schlein, Matteo Salvini, Giuseppe Conte  e perfino il "liberale" Antonio Tajani.  Sotto questo aspetto, al di là delle polemiche spicciole, Mario Draghi è ben visto dai due schieramenti.

Il che la dice lunga sul liberalismo di Mario Draghi, come pure su quello dei quadri politici italiani. Non dissimili del resto da quelli europei.

Come osservava Ortega, il conferenziere migliore è quello che dice al pubblico ciò il pubblico vuole sentirsi dire.

Carlo Gambescia

(*) Qui la versione integrale del sui discorso: https://www.adnkronos.com/economia/draghi-il-discorso-integrale-come-deve-cambiare-lue_2YqgqZph2dMWoRrMrM9Ao4 .

(**) John Maynard Keynes, Autosufficienza nazionale (1933), in Id., Come uscire dalla crisi, a cura di Pierluigi Sabbatini, Editori Laterza 1983, pp. 93-106 .

martedì 16 aprile 2024

Lo sgradito ritorno di Giovanni Gentile

 


Lo diciamo subito, senza tanti giri di parole. La mostra, che apre oggi al pubblico, su Giovanni Gentile (*), una delle colonne culturali del regime fascista e “repubblichino”, è un tributo pagato dalla destra, oggi al governo, alle sue “radici” fasciste: quelle che non “gelano mai”.

Intanto, non si capisce bene l’aggancio storico-cronologico. I 150 anni dalla nascita? No, perché Gentile nacque nel 1876. Gli 80 dalla morte? Sembra sia proprio questa la ricorrenza storica cooptata,  perché Gentile morì il 15 aprile del 1944 per mano di alcuni  partigiani fiorentini. Ma, di regola, si celebrano gli 80 anni dalla morte di un filosofo? Boh… In effetti sembra una ricorrenza  tirata per i  capelli.

Sapevamo dei 25, dei 50, dei 100. Stesso discorso per la nascita. Insomma, sembra tutto, crono-culturalmente, molto artificioso, tranne data e dinamica della morte: un attentato partigiano sotto casa. Una data, insomma, per catapultare addosso alla sinistra, in particolare quella di derivazione marxista, la responsabilità dell’uccisione politica di uno dei due grandi filosofi italiani della prima metà del Novecento,  l' altro è Benedetto Croce.

Ovviamente, si badi bene, tutto sottovoce, secondo il perfido stile omissivo della Meloni, recepito da uno dei suoi  migliori violoncelli: il Ministro della Cultura, Sangiuliano. E con l’avallo – si dia un’occhiata ai nomi del comitato scientifico – della stessa sinistra e persino di alcuni intellettuali liberali.

Così oggi vanno le cose.

Dicevamo tributo, mostra riparatrice in senso politico. Di che cosa?

Gentile fu con convinzione fascista fino all’ultimo. E la coerenza a un' idea è uno scatolone vuoto. Anche Hitler e Tamerlano furono coerenti alle proprie  idee di sterminio. Tra l'altro,  lo  erano anche i generali assiri.

Gentile fu un grande filosofo? Se lo fu, lo fu anche Croce. Solo che Croce fu antifascista. A questo proposito per capire Gentile si deve studiare Croce. Forse avrebbe avuto più senso una mostra comune dedicata ai due filosofi. Al tandem diciamo.

Qualche paletto cognitivo. Per Gentile il fascismo fu il proseguimento della Destra storica con altri mezzi: la dittatura. Per Croce, ne fu invece il tradimento, a partire dalla politica estera e religiosa. Non sono differenze da poco.

Quanto agli aspetti teorici, sia Croce che Gentile si mossero nell’alveo della distinzione di derivazione idealistica tra pensiero e azione. 

Per Gentile l’ azione era pensiero stesso, pensiero in azione insomma. Per Croce, il pensiero doveva sempre precedere l’ azione. 

Di conseguenza, Croce lavorò intorno a una teoria dei distinti in ambito del pensiero e dell’agire umano. Invece Gentile alla fusione tra pensiero e azione che si tramutò però  in  confuso attivismo, dal momento che  una volta varcato il Rubicone della distinzione tra pensiero e azione, si finisce sempre per agire senza  pensare.

Mentre in Croce, l’azione rimase nell’alveo del pensiero, ma sottoposta a  buona guardia da quest’ultimo: una appendice, soprattutto quando un filosofo desideri restare tale. Non farsi insomma condottiero politico (l'inevitabile  fine di Gentile).

Croce non era un costruttivista, sicché rifiutò in fascismo, e ruppe con Gentile, proprio mettendolo in guardia sulle pericolose derive, a sfondo utopistico, dell’attivismo politico.

In fondo la morte di Gentile fu frutto dello stesso attivismo politico fascista che vedeva nell’azione la valorizzazione del pensiero. Ovviamente nelle tragiche circostanze di Gentile si trattò di un attivismo di segno politico contrario.

Gentile in qualche misura fu vittima del suo successo nel diffondere trasversalmente nelle nuove generazioni l’azionismo, per dirla altrimenti  il costruttivismo.  Un agire frenetico che può assumere, una volta messo in secondo piano il pensiero, addirittura forme terroristiche. Come Gentile, purtroppo, provò di persona.

Come detto la deriva azionista sconfina inevitabilmente nel costruttivismo sociale.  E infatti Gentile fu un grande organizzatore, a differenza di Croce, che pure ebbe i suoi meriti: si pensi al lavoro come Ministro della Pubblica Istruzione, tra l’altro anticipò la riforma di Gentile, a quello con Laterza e alla “Critica”.

Però ecco il punto limite. Di non ritorno. Gentile, ad esempio creò da zero l’ Enciclopedia italiana, con l’Istituto, eccetera, ma come tutti sanno, scrisse “anche” la voce “Fascismo” quasi per intero (probabilmente anche la parte ufficialmente scritta da Mussolini).

E che cos’è un’ Enciclopedia per l’ azionista-costruttivista? Un corpo socialmente contundente: il punto di partenza della totale riforma sociale. Un mondo da ricostruire con il libretto delle istruzioni sottomano…

Sotto questo aspetto, l’azionismo di Gentile, andò oltre l’azionismo dei giacobini, che avevano preteso di ricostruire la Francia con in tasca - si fa per dire  - la famosa Encyclopédie  di Diderot e D’Alambert. Gentile invece fu più bravo: fece tutto da solo, Enciclopedia e riforme. Purissimo costruttivismo sociale. Da manuale quasi.

Si dice che Gentile fece collaborare all' Enciclopedia Italiana anche studiosi antifascisti, o comunque non allineati. Vero. Però la debolezza morale degli intellettuali privi di spina dorsale, di ieri e di oggi ( e qui torniamo ai nomi del comitato scientifico della mostra su Gentile), che accettarono di collaborarvi,  è il perfetto corrispettivo della magnanimità di Gentile.

Nei due casi, nel bene o nel male, sono in gioco le  doti personali, individuali se si vuole. Che  non possono essere addotte come prove a discarico del regime fascista, un’ organizzazione collettiva. Sono due dinamiche differenti: la prima rinvia alla persona, al privato; la seconda alla politica, al pubblico.

Probabilmente l’attualità di Gentile rispetto a Croce, ma non in chiave di lascito positivo, è nello statalismo gentiliano, che con i suoi pressanti  richiami allo stato etico,  trova  inevitabile  sfogo  nella pratica dello stato interventista in tutti i campi (dalla scuola all’economia), come del resto accadde con il fascismo.

In questo senso lo stato etico gentiliano intercetta e favorisce il welfarismo contemporaneo, difeso dalla destra in termini di sciovinismo welfarista (di servizi sociali riservati solo agli italiani). Una difesa condivisa anche da socialdemocratici e liberalsocialisti, ma in termini di welfare universale (italiani e migranti).

Tuttavia – ecco il minimo comune denominatore – il costruttivismo-azionismo, privilegiando il welfare, ingloba sia il fascismo, e reincarnazioni varie,  sia i suoi nemici socialdemocratici, di ieri e di oggi

Infine sono singolari due cose.

Innanzitutto il fatto che non si accenni al liberalismo macro-archico di Gentile, un liberalismo che scorge nello stato una macchina per “fabbricare” i cittadini. 

Insomma, per tornare sul punto,  il pensiero di Gentile rinviava, sì alla Destra storica, ma depurata dai motivi individualistici, che invece sono il sale del liberalismo.

Sotto questo aspetto, come già detto, per Gentile il fascismo fu la continuazione della Destra storica. Si tratta, come è chiaro, di una evidente forzatura. Però sono cose che vanno dette. 

Qui, e veniamo alla seconda singolarità, sembra non si sia capito bene che l’ultima opera di Gentile, Genesi e struttura della società, non è altro che un guazzabuglio di pietosi  sofismi, come questo:

“Dunque, libero è soltanto l’individuo nel libero Stato. O meglio, libero è l’individuo che è Stato libero, poiché lo Stato realmente, non è tra gli individui, ma nell’individuo, in quella unità di particolare e universale che è l’individuo” (**)

Una argomentazione, a dir poco  confusa, che potrebbe essere condivisa da un liberalsocialista come pure  da un nazionalsocialista. Su quest’ultimo punto, si ricordino i toni durissimi del “Discorso agli Italiani” del giugno del 1943, dove Gentile parla di “spirito luminoso della razza” (***).

Pertanto risulta improprio parlare del comunitarismo gentiliano, che non è altro che statalismo mascherato, al quale viene cambiata etichetta e rimesso in vendita.  La “comunità”, come “legge interna all’individuo”, non è altro che una specie di pre-stato “dentro” l’individuo, che dipende comunque  dallo sviluppo dello stato, perché da sola, questa  legge, puramente interiore non può reggersi. Dal momento che secondo Gentile ricadrebbe inevitabilmente nell’errore liberale dell’individuo autosufficiente (****). 

 Però il problema nei sistemi  stato-etici auspicati da Gentile è che  i "capi" e i  "duci" finiscono sempre per diventare più autosufficienti  di  tutti gli altri.

L’esistenza di un comunitarismo gentiliano resta, dispiace dirlo, per usare l’italiano aulico di Gentile,  l’ultima “speme” di un filosofo  che aveva visto cadere,  una dopo l'altra, tutte le sue illusioni politiche. Errare è umano, perseverare diabolico. Ecco,  in sintesi,  ciò che significa  lo sgradito ritorno di Gentile.

Si ricordi: il costruttivismo sfocia sempre nel nichilismo politico e sociale.  Perché, dopo aver messo in moto la macchina schiacciasassi dello stato, non è così semplice fermarla, a prescindere dal mantenimento o meno (più meno che più) delle sue titaniche promesse. La funzione sviluppa l’organo. Lo stato non è la soluzione ma il problema. Punto.

Solo un anafalbeta politologico, come Gennaro Sangiuliano, può  prendere per buono il comunitarismo di Giovanni Gentile. Sempre che sia in buona fede.

Comunque sia,  così oggi  vanno le cose.

Carlo Gambescia

(*) “SCENDERE PER STRADA. Giovanni Gentile tra cultura, istituzioni e politica”, mostra che apre al pubblico oggi martedì 16 aprile 2024 (Istituto Centrale per la Grafica, Roma, via Poli, 54). Si veda qui: https://www.beniculturali.it/comunicato/26195 .

(**) G. Gentile, Genesi e struttura della società, Sansoni, 1975, p. 66.

(***) Qui: http://bibliotecafascista.blogspot.com/2012/03/discorso-agli-italiani-24-giugno-1943.html .

(****) Giovanni Gentile, Genesi e struttura della società, cit., pp. 13-17 .

lunedì 15 aprile 2024

Israele, “Si vis pacem, para bellum”

 


L’immagine di copertina, dei missili-cetrioli, quindi innocui, è ripresa dalla pagina Fb di Roberto Della Rocca, un medico che vive in Israele, membro del Meretz, partito di ispirazione socialdemocratica e dalle idealità laiche (*).

I mass media arabi di ispirazione sunnita ironizzano sulle capacità militari dell’Iran. Sempre Roberto Della Rocca, in un’ intervista all’agenzia Adnkronos, racconta, per il dopo droni e missili, di balli in spiaggia e di un clima rilassato (**).

Chiunque conosca la storia dello stato d’Israele, dalla sua rifondazione, conosce benissimo le capacità morali di resistenza di questo popolo. Per non parlare di quel meraviglioso istinto di conservazione che ha favorito la resistenza del sostrato ebraico nella diaspora perfino dinanzi a una prova inenarrabile come la Shoah.

Per un laico e per chiunque rifiuti spiegazioni di tipo esclusivamente religioso, esiste veramente qualcosa di inspiegabile alla radice di una psicologia resistenziale che, a nostro modestissimo avviso, non ha eguali sociologici nella storia umana, per qualità e quantità, o vitalità se si preferisce.

Però – consiglio non richiesto – non abbasseremmo la guardia. Che i Sunniti ironizzino sugli Sciiti significa solo una cosa: che si ironizza sui mezzi, scarsi, usati dagli Sciiti per annientare Israele, non sui fini: l’annientamento.

La recente vicenda terroristica dello “Stato Islamico” di ispirazione sunnita prova che per gli uni e per gli altri, almeno sul piano delle potenziali derive terroristiche, il nemico principale resta Israele. Almeno fino a prova contraria.

Non abbassare la guardia non significa però rinunciare alla possibilità di ragionare sulla pace con chiunque mostri moderazione all’interno del composito mondo politico musulmano.
 

Non siamo specialisti di politica medio-orientale e neppure crediamo nella ricomposizione pacifica in tempi brevi della questione. La strada della pacificazione è lunghissima. Però mai rinunciarvi.

Un punto però vorremmo evidenziare. A nostro avviso fondamentale, pregiudiziale a qualsiasi processo di pace.

Facciamo un passo indietro. Nell’Ottocento lo zar Nicola II definì felicemente l’Impero ottomano, allora in netta decomposizione politica, il “grande malato d’Europa” (detto per inciso: “Signora mia, anche gli ‘zar’ di oggi non sono più gli zar di una volta”…).

L’Impero ottomano era giustamente dipinto come specie di grande vecchio decrepito, dai maestosi lombi debordanti lo scricchiolante trono che li sorreggeva. Alleatosi con gli Imperi centrali nella Grande Guerra, ne pagò le conseguenze: i trattati di pace sottoposero l’Impero ottomano a una drastica cura dimagrante. Fu ridotto più o meno alle dimensioni della Turchia attuale.

Oggi, alla luce della crisi medio-orientale, esiste un grande malato? Se esiste non è di sicuro Israele come vogliono far credere i suoi nemici, dalle varie scuole politiche rosso-bruniste agli stati come l’Iran.

Chi è allora il grande malato? L’islam politico. Diviso in modo talvolta pulviscolare per frammenti, fedi e confessioni, incapace di andare oltre la minaccia e spesso la realizzazione terroristica. Detto altrimenti: talvolta piovono “cetrioli”, talaltra no.

La malattia si chiama rifiuto della modernizzazione culturale, ancora prima che tecnologica.
In pratica si tratta dello stesso problema vissuto a suo tempo dal decadente Impero ottomano. Si compravano dall’Europa i cannoni, senza capire l’importanza del burro culturale. E soprattutto della democrazia liberale.

Lo stesso Mustafa Kemal Atatürk, l’intelligente padre della modernizzazione turca, grande militare e politico europeizzante, non capì fino in fondo l’importanza della modernizzazione politico-culturale. In particolare delle istituzioni politiche. E la Turchia, nonostante tutto, ancora ne paga le conseguenze.

Però non si deve essere pessimisti. Per il grande malato medio-orientale del XXI secolo, l’Islam, non sarà facile modernizzarsi, semplificando: puntare su cannoni e burro al tempo stesso. Anzi, sul più burro, meno cannoni. Però bisogna piangere con un occhio solo. Nulla va escluso. La modernità ha un fascino al quale, alla lunga, non è facile sottrarsi. La banale metafora del bicchiere, come per lancette di un barometro, deve volgere verso il mezzo pieno.

Con giudizio però. Perché, nello stato di incertezza, comunque prevalente, Israele, deve tutelarsi.

In parole povere, difendersi con tutte le sue forze.

Pensarla come quei Romani, al cui assedio, Masada, durante la Prima guerra giudaica, si oppose eroicamente, pur soccombendo: “Si vis pacem, para bellum”.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.facebook.com/photo/? fbid=955020529956561&set=a.377230277735592&locale=it_IT .

(**) Qui: https://www.adnkronos.com/internazionale/esteri/israele-iran-medico-italiano-a-tel-aviv-balli-in-spiaggia-dopo-notte-di-tensione-video_5VjZ717H01id5nIYZzKRZU .

domenica 14 aprile 2024

Occidente dove sei?


 

In principio era lo Scià… Spazzato via da una rivoluzione sciita contro l’Occidente, il “Grande Satana”, secondo le parole di Khomeyni: leader spirituale di una rivoluzione da intendere però nel senso astronomico del giro completo di un corpo celeste che ogni volta ritorna al punto di partenza.

Si legga il ritratto che ne fece Oriana Fallaci quando lo intervistò. Molto prima di essere strumentalizzata in chiave razzista dalle destre italiane: un vecchiaccio torvo e impassibile, un autentico reazionario. Un grande pericolo per l’Occidente, che invece fu sottovalutato. Del resto, come allora si diceva, lo Scià era corrotto, mentre Āyatollāh era sinonimo di purezza religiosa. Però lo Scià era alleato e amico dell’Occidente. Un bastione contro il fondamentalismo. Mentre la purezza, come tutti oggi possono vedere, non è sinonimo di democrazia liberale.

Però a quei tempi Nino Pasti, generale di idee comuniste, filorusso, suocero di Corrado Augias, scrisse su “Relazioni Internazionali” dell’ Iran come esempio di una rivoluzione pacifica… Chissà dove sarà finita la lettera di protesta di un giovane e ignoto studente, ma lettore della rivista. Anno di grazia 1979.

Purtroppo la forma mentis dei nemici di Israele, una miscela di antisemitismo e antioccidentalismo, non è cambiata. Come non è mutato il nesso, già allora molto stretto, tra Russia,  pacifismo a senso unico filorusso e anticolonialismo, anch’esso a una corsia filorusso.  Un tempo il "vello d'agnello" che ricopriva tutto,  era filosovietico, oggi, ripetiamo è filorusso. Se non è zuppa è pan bagnato.

Nelle pubblicistica della destra e della sinistra radicali, Israele è liquidato come stato colonialista e imperialista, secondo la vecchia ricetta filosovietica,  perciò i droni armati di bombe e razzi iraniani sono giustificati: buoni contro cattivi. Profumano di pace.

Neofascisti e neocomunisti, pur disprezzandosi a vicenda, condividono lo stesso odio verso Israele e gli ebrei. Il rossobrunismo, fenomeno politico negato con sdegno da neofascisti e neocomunisti, in realtà è nei  fatti. Sotto il vestito buono dell’antisionismo – diciamo così per semplificare – si nasconde il mostro a sette teste dell’antisemitismo. Che unifica, di fatto, i due estremi.

C’è però dell’altro. Anche se non vi sono prove provate, si percepisce, o meglio si intravede, dietro l’attacco terroristico di ottobre contro  Israele, oltre alla manina di Hamas e dell’ Iran, la manona della Russia: vera mente di un attacco diversivo ma concentrico contro l’Occidente e i suoi alleati, Israele per primo. Si rifletta: la Russia di oggi non rappresenta forse l’autoritratto vivente del rossobrunismo di fatto?

E in Europa che si fa? Panico.  Come fenomeno inibitorio di qualsiasi azione politica e militare. Si distillano rinvii.  

Ieri il professor Panebianco sul “Corriere della Sera” scriveva della Cina, che per attaccare e impadronirsi di Taiwan, attende di vedere come andrà a finire l’aggressione russa all’Ucraina. Ora è il turno di Israele. I tempi in sala di attesa si allungano. 

Però il metodo russo, se nessuno si opporrà con decisione, potrebbe fare scuola. Scuola dei dittatori, come scriveva Ignazio Silone, grandissimo scrittore, anticomunista e roccia abruzzese, passato per le infuocate fornaci togliattiane del Pci degli anni Venti del Novecento.

Il nostro appello può apparire retorico, addirittura patetico, dal momento che l’analista deve sempre muoversi dalle parti dell’obiettività. Almeno così si dice.

Però quando pensiamo che siamo diventati analisti, perché nati in Occidente, quindi liberi di diventarlo senza fare sconti ideologici a nessuno, e che invece se nati in Russia e in Cina avremmo fatto una brutta fine, non possiamo non lanciare un grido di allarme. Probabilmente inutile: Occidente dove sei? Occidente dove vai? Non vuoi la guerra? Allora sarà la guerra a scegliere per te. E contro di te.

Carlo Gambescia



sabato 13 aprile 2024

Sul “divieto universale dell’utero in affitto”



"Divieto universale dell’utero in affitto" . Questo è l’auspicio di Giorgia Meloni. 
 
Già l’espressione è tutto un programma. Perché più correttamente si dovrebbe parlare di “maternità surrogata”.

 

Tuttavia, proprio per evitare il solito inutile giochino argomentativo destra-sinistra, anche sulle terminologie, la prenderemo da lontano. Sappiamo di abusare della pazienza del lettore. Chiediamo perdono in anticipo.

Il mondo moderno è caratterizzato dalla nascita e dallo sviluppo dell’individualismo. L’individuo, concettualmente parlando, è una persona separata dalle altre con dei propri bisogni, obiettivi, e desideri da perseguire. Per essere separati, si deve essere padroni di se stessi. E si è padroni di se stessi, a cominciare dal proprio corpo, quando non si dipende da nessun altro. Detto in sociologhese, quando non si dipende da alcuna istituzione.

Il principale avversario dell’individuo è rappresentato dalle istituzioni. Cioè da altri individui, che per status (posizione gerarchica), producono, all’interno di una organizzazione o apparato (quindi con altri individui simili per status), norme di comportamento. Come ad esempio, per il passato, papato e impero. E per il presente lo stato.

Va anche detto che ogni istituzione prima di essere tale è un movimento, cioè ha origini spontanee, sociali, frutto di interazioni tra individui. Per fare solo un esempio, si pensi al cristianesimo, prima movimento basato su libere adesioni individuali, poi istituzione gerarchica e coattiva.

Comunque sia, quanto più ampia la sfera delle istituzioni tanto più ridotta la libertà individuale. Sotto questo aspetto, nel mondo moderno l’individuo gode di una libertà individuale prima sconosciuta .  Infine,  il fatto che  nel mondo pre-moderno  alcuni uomini e donne abbiano goduto dei piaceri individuali dell’intelletto, rappresenta la classica eccezione che conferma la regola. I piaceri spirituali sono e saranno sempre per pochi.

Ovviamente le società non possono fare a meno delle istituzioni. Se nell’Europa pre-moderna, dominarono istituzionalmente Impero e Chiesa, nell’Europa moderna, lo stesso ruolo è svolto dallo stato. Si tratta però di una questione di dosaggio. Si pensi ad esempio alle differenze che intercorrono tra stato assoluto, stato costituzionale e stato totalitario.

Che giro di parole, penserà il lettore… In realtà, la lunga premessa aiuta a capire che quando si parla come Giorgia Meloni di “utero in affitto” e di “divieti universali” si ragiona in termini di istituzioni. Anzi di logica istituzionale. Non si è dalla parte dell’individuo: lo stato, come un tempo impero e chiesa, si auto-attribuisce il potere di determinare istituzionalmente ciò che sia bene o male per l’individuo. 

Detto altrimenti, lo stato determina i bisogni, obiettivi e desideri da perseguire di cui si diceva all’inizio. Inoltre quando non basta più la pressione morale-sociale sul piano dei comportamenti prescritti dal costume, allora si dettano direttamente norme giuridiche alle quali l’individuo deve attenersi per evitare sanzioni.

Il bene principale, anzi fondamentale, dell’individuo è la libertà, a partire dal potere di disposizione e godimento del proprio corpo. Si chiama anche diritto di proprietà.

Ovviamente nel caso della maternità surrogata entra in gioco la figura del nascituro. Un altro essere umano, un individuo, con i suoi diritti, eccetera, eccetera. La questione quindi si fa più complessa.

Però la vera domanda resta una sola: chi deve decidere ciò che fare del nascituro?  Lo stato o l’individuo?  Dicamo che in una società individualistica, moderna, non può che essere l’individuo.  Mentre in una società pre-moderna, istituzionalista, non può che essere l’istituzione,  ad esempio chiesa e impero, magari di concerto.

Quando si legge di “divieto universale dell’ utero in affitto”, avvertiamo un brivido lungo la schiena. Piaccia o meno, si esce dall’individualismo per entrare nell’istituzionalismo. Ciò significa che la  libertà individuale  è  a rischio.

Non è solo una battuta: chi non ricorda l’espressione tipica delle battaglie femministe di un tempo? “L’utero è mio e lo gestisco io”. Ecco, oggi,  è l'istituzione  che  vuole tornare a  "gestirlo".

Sono cose che si devono dire. È bene che si sappiano. Che poi l’istituzionalismo di Giorgia Meloni ci riporti al mondo pre-moderno è un’altra riprova della natura anti-individualistica e retriva della destra che oggi ci governa.

Carlo Gambescia

venerdì 12 aprile 2024

Tirarsi i morti in faccia




"Lei", Giorgia Meloni, come al solito tace, però evidentemente, ha consentito a “chi di dovere”, come si dice in burocratese, di intervenire.

Attenzione, parliamo di un partito, Fratelli d’Italia, che ogni giorno fa uscire il mattinale, una velina alla quale parlamentari e membri del partito devono attenersi nelle dichiarazioni pubbliche. Quindi nulla è mai casuale.

 

Qui il testo uscito sul sito di Fratelli d’Italia (*):

« “È davvero increscioso che quarantasei anni dopo, non si riesca ancora a riconoscere con spirito di pacificazione nazionale la strage di Acca Larenzia. Ho appreso, già da due giorni, che tra i libri finalisti del Premio Strega è stato ammesso un testo di Valentina Mira, ‘Dalla stessa parte mi troverai’, che prova a banalizzare l’atroce mattanza avvenuta nel quartiere Tuscolano il 7 gennaio 1978. Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, lasciati esanimi sul selciato con la sola ‘colpa’ di essere militanti del Movimento sociale italiano, così come Stefano Recchioni, ucciso qualche ora dopo negli scontri che si scatenarono davanti la sezione, meritano il rispetto di tutti gli italiani. Purtroppo, invece, c’è qualcuno a sinistra, evidentemente foraggiato da un circo mediatico intriso di ideologia, che continua a considerare i ragazzi di destra dei morti di serie b”. Lo dichiara in una nota il senatore Raffaele Speranzon, vicecapogruppo vicario di Fratelli d’Italia. “La verità storica viene ancora una volta strumentalizzata e offesa, questa volta per meri fini letterari e commerciali, infangando quella cultura del ricordo che vuole rendere omaggio alle tante vittime di quegli anni bui, di cui in troppi si riempiono la bocca, ma evidentemente solo in occasione delle ricorrenze”, aggiunge il vice capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera dei deputati, Augusta Montaruli. “A parti inverse, se qualche autore di destra avesse affrontato con lo stesso sdegno la morte di ragazzi innocenti di sinistra, si sarebbe giustamente agitato un vespaio di polemiche. Duole allora dover constatare che certi salotti culturali italiano, evidentemente, non sono ancora maturi per affrontare la violenza politica senza incrostazioni ideologiche di sinistra. Vergogna”, conclude in una nota il senatore Paolo Marcheschi, capogruppo di Fratelli d’Italia in commissione Cultura (*) ».

Alcune osservazioni.

In primo luogo, di tipo politico: che un partito che si definisce conservatore e democratico difenda, al di là dei giri di parole, più o meno nobili, l’immagine di un partito antidemocratico e reazionario illumina i legami politici, mai dissolti, tra il Movimento Sociale e Fratelli d’Italia. Si finisca con l’ipocrisia che il Movimento Sociale sedeva in parlamento e che quindi era democratico come tutti gli altri! Sì, lo era  per diritto  "sedutivo".  Il Movimento Sociale  era invece un partito di cattivi maestri. Si vada a leggere la stampa missina, di partito e dintorni, se ne scopriranno delle belle. Era un partito neofascista, altro che democratico! Fratelli d’Italia, ideologicamente parlando, non ha mai rotto i ponti con il suo passato. Insomma, fatto revisionismo. E ora  ha  il coraggio di parlare dell'altrui revisionismo...

In secondo luogo, osservazioni di tipo umanitario. Si dice che quei ragazzi erano come tutti gli altri. Giusto. Allora perché Fratelli d’Italia, non ha mai preso le difese, e non in modo generico, dei ragazzi di sinistra, nome per nome, caduti per mano neofascista? Non erano anche loro come tutti gli altri? Si parla di pacificazione, ma in realtà, nulla si è dimenticato, nulla si è perdonato. Come prova lo stesso linguaggio, venato di disprezzo, delle dichiarazioni appena lette: “circo mediatico intriso di ideologia”, “meri fini letterari e commerciali”, “salotti culturali”, “incrostazioni ideologiche di sinistra”. E, si ricordi, dal disprezzo all’odio, e dall’odio alla pratica dell’odio, il passo è breve. Altro che umanitarismo…

In terzo luogo, osservazioni di tipo libertario. Perché un partito deve intromettersi nella vita culturale e decidere chi debba andare in finale o meno al “Premio Strega”? Anche qui Fratelli d’Italia rivela la stessa visione politicizzata della cultura, “partidaria”, come avrebbe detto Ortega, che animava il Movimento Sociale e il fascismo. Il fatto, che anche la sinistra – certa sinistra marxista, non tutta – sia altrettanto “partidaria”, non può essere accettato come scusante. Su questa equivalenza  tra estremismi di destra e sinistra  torneremo  tra breve.

In definitiva, il punto è che la cultura che ha animato il Movimento Sociale e che continua ad animare Fratelli d’Italia ( l’esperienza di Alleanza nazionale, nel bene e nel male, è stata bypassata da un pezzo) è sempre quella della “nobilità della sconfitta”, dell’ “aristocrazia delle anime”, degli “ esuli in patria”. Una cultura che continua a rifiutare la sconfitta e la lezione del 1945. Qui, ripetiamo, il punto vero.

Ci scusiamo in anticipo per l’impennata intellettuale. Si pensi alla cultura dei fascisti dopo Mussolini, sospesa fra tradizionalismo e nazionalismo, che ha comunque continuato a muoversi nell’alveo della cultura della “tentazione fascista” (Kunnas). Una cultura che privilegia l’uso della violenza politica: dell’azione per l’azione, del bel gesto, dell’esteta armato, eccetera, eccetera.

Sorel, pensatore non banale ma dalla parte della violenza anarcoide, rivendicato da Mussolini, fa il paio con Lenin, il lucido teorico della violenza proletaria, rivendicato da Gramsci. Il quale, parliamo di Gramsci, da giovane non restò insensibile al fascino di Sorel. Il serpente piumato di mitra e pistole dell’estremismo finisce sempre per mordersi la coda.

E qui torniamo sulla questione dell' equivalenza. La violenza, teorizzata a inizio Novecento da Sorel e Lenin, resta alla base della violenza degli anni Settanta, violenza che accomunerà il terrorismo di destra e di sinistra.  E tutta la successiva e furibonda retorica  su chi abbia cominciato per primo.  Oggi ritocca a Fratelli d'Italia. Domani ai Proletari d'Italia. E così via.

Si potrebbe addirittura individuare un lungo filo rosso-nero. Quando si parla di fascio-comunismo non si sbaglia. Esistono legami: e l’uso sistematico della violenza risolutiva è tra questi. Ad esempio, agli arditi fascisti si opposero gli arditi del popolo. E così via. 

Perciò si dovrebbe discutere  di  queste genealogie intellettuali e politiche  non delle improbabili pacificazioni tra cattivi maestri.

Comunismo e fascismo: non c’è nulla da salvare. Finché non si sarà capito questo, si continuerà  a discutere  vanamente  su chi abbia premuto per primo il grilletto. E, cosa ancora più triste,  a tirarsi in faccia  i rispettivi morti.

Carlo Gambescia